Movie Thumb

Mulholland Drive – vers. restaurata 4K sott. it.

25 Ottobre , 2021

0.0
0 Reviews

----

Archivio

---

Movie Story

lunedì 29 ore 17.15 e 21.10 – vers. or. sott. it

MULHOLLAND DRIVE (Francia-Usa, 2001; 145′) di David Lynch, con Justin Theroux, Naomi Watts, Laura Harring

Rita perde la memoria a causa di un incidente d’auto sulla strada di Mulholland Drive, a Hollywood. Sarà Betty Elms, un’attrice australiana appena arrivata a Los Angeles, ad aiutarla a recuperare la memoria e l’identità.

Mulholland Drive, uno degli indiscussi capolavori della fase matura dell’arte di David Lynch, nonostante e forse proprio attraverso l’ormai celebre ‘enigmaticità’ della sua struttura, possiede tutti gli ingredienti del ‘romanzo dell’‘abbandono’, esaltati da un’atmosfera noir particolarmente in sintonia con un progetto narrativo così centrato sui sentimenti. Perché il noir non è solo un genere di narrazione che fa perno sul delitto, sulla colpa, sul mistero: al suo interno, si agita sempre Eros, con la sua cieca forza distruttiva e i suoi labirinti di passioni. Comunque si voglia rendere conto della trama del film, risulta sempre più chiaro, via via che il film procede verso la sua conclusione (o retrocede, se si preferisce, verso il suo punto di partenza), che Lynch ha immaginato uno spazio onirico, o uno spazio immaginale, muovendo da una catastrofe sentimentale, dalla perdita di un Eden amoroso. Due donne bellissime si amavano, fino al giorno in cui una delle due ha messo fine alla storia, imboccando una strada nuova, e lasciando l’altra sulla sua spiaggia solitaria, nello strazio interminabile dei suoi giorni dell’abbandono. (Emanuele Trevi)

“David Lynch torna al suo stile più personale per raccontare una bella metafora sul cinema. Tensione, mistero, sensualità, eleganza d’epoca, romanticismo alla Raymond Chandler, storie inestricabili e confuse ma grande atmosfera, emozioni vissute come in sogno, la vita ingenua e torbida delle ragazze.” (Lietta Tornabuoni, ‘La Stampa’)

“Può darsi il caso di un film che sia al tempo stesso bellissimo e incomprensibile? Ardua questione che riguarda anche alcuni geni del passato (Tarkovskij, Jancso, il Buñuel surrealista e persino il super-hollywoodiano Howard Hawks del Grande sonno, noir volutamente indecifrabile). Se questi grandi potevano, perché David Lynch no? Il suo Mulholland Drive, da oggi nei cinema italiani dopo un premio per la regia a Cannes 2001 e un’inopinata candidatura all’Oscar, è un perfetto esempio di capolavoro misterioso. Non credete a chi vi dirà di aver capito la trama: mente. Nato come “pilota” di una serie tv che poi la rete Abc non ha voluto realizzare, Mulholland Drive è un gioioso enigma la cui vera protagonista è Los Angeles, messa a nudo con divertente cinismo. Uno dei pochi dati certi del film è proprio il titolo: Mulholland Drive è la strada che corre sinuosa sulle Hollywood Hills, dividendo la Los Angeles propriamente detta dal gigantesco sobborgo della San Fernando Valley. È una strada buia, tortuosa, dove è facile abbandonare un cadavere nella sterpaglia. Una strada che è anche un luogo dell’anima. E che è l’anima del film. È sulla Mulholland Drive che, nella prima sequenza, una ragazza sequestrata da due gangster rischia la vita: ma un provvidenziale incidente d’auto la salva dai bruti. Ferita, si allontana a piedi e giunge a Beverly Hills, dove si nasconde in un appartamento vuoto. In quella casa si stabilisce il mattino dopo Betty, nipote della proprietaria, arrivata fresca fresca dal Canada con il sogno di sfondare nel cinema. Betty trova l’intrusa, crede sia una collega della zia ma ben presto capisce che c’è sotto qualcosa: la ragazza ha perso la memoria e sostiene di chiamarsi Rita solo perché ha visto un poster della Hayworth. Betty vuole aiutarla. Ma anche lei ha i suoi problemi. Deve sostenere un provino per un film il cui regista, Adam Kesher, è in un mare di guai: degli assurdi gangster vogliono imporgli un’attrice e sono pronti a usare qualunque mezzo. Sono gli stessi gangster che hanno tentato di uccidere “Rita” o come diavolo si chiama? Cosa apre la chiave azzurra che “Rita” ha nella borsetta, assieme a un malloppo di dollari dei quali ignora totalmente la provenienza? E chi è quel vecchietto – stranamente somigliante al nano di Twin Peaks – che ascolta i dialoghi di tutti? Chi sono gli anziani coniugi arrivati a Los Angeles con lo stesso aereo di Betty? Chi è davvero Coco, la strana affittuaria dell’appartamento dove Betty vive? E chi è Diane Selwyn, una donna che forse è Rita o forse giace morta in casa sua da una settimana? Credete che non rispondiamo a queste domande per lasciarvi il gusto della suspence? Nossignori! Saremmo emeriti bugiardi se millantassimo di averci capito qualcosa. Anche perché nella seconda parte, quando la chiave ha aperto una misteriosa scatola nella quale la macchina da presa si tuffa con voluttà, il film – come il precedente di Lynch, Strade perdute – entra in un universo parallelo dove Betty non è più Betty e Rita non è né Diane, né tantomeno Rita! L’unico modo di spiegare Mulholland Drive è ricorrere a Pasolini e alla famosa battuta del Fiore delle Mille e una notte: la verità non è in un sogno, ma in molti sogni, e forse Mulholland Drive è un universo in cui qualcuno sogna l’incubo A all’interno del quale qualcun altro sogna l’incubo B che rinvia all’incubo C dentro il quale c’è il tizio (o i tizi: attenzione alla scena iniziale nel fast-food, con quei due uomini che non rivedremo più) che ha sognato l’incubo di partenza. Un labirinto inestricabile ma incredibilmente affascinante. Perché sul piano visivo Lynch è al suo meglio e tiene alta la tensione anche senza spiegare nulla, spingendo le due magnifiche attrici (la bionda Naomi Watts e la bruna Laura Harring) a una prova maiuscola. Mulholland Drive è come un quadro astratto: vietato chiedere cosa significhino un Mondrian, un Pollock, un Picasso. Se siete fra coloro che pensano che quei tre non sappiano disegnare, non entrate in quella sala: vi arrabbiereste. Ma se siete disposti a vivere il cinema come un sogno ad occhi aperti, Mulholland Drive potrebbe essere non il film dell’anno, ma addirittura il film della vita.” (Alberto Crespi, ‘L’Unità’)