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Roma

23 Gennaio , 2019

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Movie Story

Le vicende di una famiglia borghese messicana che vive nel quartiere Roma a Città del Messico negli anni settanta. In un anno turbolento Sofia, madre di 4 figli, deve fare i conti con l’assenza del marito, mentre Cleo affronta una notizia devastante che rischia di distrarla dal prendersi cura dei bambini di Sofia, che lei ama come se fossero i propri…

“Per Alfonso Cuarón, ecclettico latinoamericano a Hollywood di risultati discontinui (in curriculum un ”Harry Potter’ e il ‘Gravity’ spaziale vincitore di Oscar), questo ‘Roma’ è il film della vita, un ritorno alla casa di famiglia nel quartiere alto borghese del titolo a Città del Messico, dove l’ago di un tempo proustiano in bianco e nero cuce le sorti della domestica Cleo in risonanze neorealiste e felliniane. (…) ‘madeleine’ comandate da una potente visione di dettaglio e d’insieme (…).” (Silvio Danese, ‘Nazione-Carlino-Giorno’, 31 agosto 2018)

“Fotografato in un risplendente bianco e nero, il film sa trasmettere quel senso di confusione se non di sconfitta e fallimento che il Messico attraversava in quegli anni, dove la borghesia (vedi il marito) preferisce fuggire e il proletariato (come il fidanzato di Cleo) sfoga la rabbia nella violenza. Cosi come assume forza metaforica il destino dell’indigena Cleo, madre mancata per sé ma madre salvifica per i figli della borghesia. Un sovraccarico di senso che però finisce per togliere vitalità al film, troppo perfetto nelle sue studiatissime inquadrature e nei suoi ricercati movimenti di macchina per emozionare davvero. Svelando quello che è probabilmente il problema delle produzioni Netfiix affidate a registi di gran nome: una libertà tanto grande da favorire gli eccessi.” (Paolo Mereghetti, ‘Corriere della Sera’, 31 agosto 2018)

“Sconfina nel passato, riconfinandosi a girare nel paese natio, il messicano Alfonso Cuarón dopo un lungo interludio hollywoodiano. Troupe e cast del luogo, e Cuarón che (…) disegna il quadro semi autobiografico di una crisi familiare addolcita dalle materne cure di una domestica, firmando regia, copione, fotografia e montaggio. Più cinema d’autore di così!, eppure nonostante la bellezza formale e la sensibilità del racconto, «Roma» non agguanta come dovrebbe.” (Alessandra Levantesi Kezich, ‘La Stampa’, 31 agosto 2018)

“Il presupposto alla base di ‘Roma’ è in fondo giusto: perché le storie degli umili e degli ultimi dovrebbero essere mostrate per forza con un realismo paradocumentario? Alfonso Cuarón, regista di film diversissimi, da ‘Y tu mamá también’ a un Harry Potter, per il suo dramma sociale in cui torna al natio Messico, sceglie un luccicante bianco e nero, inquadrature e movimenti di macchina costruitissimi. (…) Le disparità di classe sono esposte in maniera diretta, con le differenze abissali tra servi (spesso indios) e padroni, ben oltre le differenze di genere. (…) Dopo il successo di ‘Gravity’, Cuarón ha potuto realizzare un film che sentiva profondamente, in cui ha messo i propri ricordi d’infanzia. E, come si diceva, ha scelto uno stile sontuoso, con un grande senso dello spazio, esibendo la presenza di una regia ‘ricca’, di uno sguardo inevitabilmente diverso da ciò che si narra. (…) Anche se in certe scene-clou (il parto con inquadratura fissa in parte fuori fuoco, una scena al mare in complicatissimo piano sequenza di 5′ con controluci e dolby avvolgente) rischia di distrarre dall’intensità della vicenda.” (Emiliano Morreale, ‘La Repubblica’, 31 agosto 2018)

“‘Roma’ nasce precisamente dai ricordi del regista, la casa della sua infanzia è stata ricostruita nei particolari, ha voluto intorno a sé solo maestranze di lingua spagnola (anche se lui stesso ha ricoperto la maggior parte dei ruoli, dal direttore della fotografia al montaggio). L’andamento della vita domestica è l’osservatorio privilegiato da cui mostrare la costruzione gerarchica di una società maschilista, dove le domestiche sono l’ultimo anello, testimoni anche dello sgretolamento di una vita protetta. Da pochi indizi, da piccoli eventi fino a quelli più inaspettati e drammatici è reso palpabile il cambiamento dei tempi, così come i drammi personali alludono alle tragedie che avvengono per strada, ma senza che ci sia bisogno di mostrarle se non per allusioni. (…) bastano pochi secondi per riannodare tutti i fili, magnifico lavoro di costruzione che svela più dimensioni, dalla struttura classista della società, dal quartiere benestante al pueblo senza acqua e senza luce, le strade di fango. Cuarón fa emergere da ogni angolo dello schermo la vita palpitante del passato e ciò che resta di vitale nel presente, la rete degli affetti, i suoi ricordi d’infanzia portati poi da grande sullo schermo.” (Silvana Silvestri, ‘Il Manifesto’, 31 agosto 2018)

“La sequenza dell’Halconazo è tra le più superbe di un film che stilisticamente ha molto da insegnare, girato com’è in un bianco e nero di grande agio spaziale (gli effetti speciali sono delle partita) e di cura maniacale per il sonoro. Cuarón vi distilla l’abbandono di due donne (…). Un incontro-confronto, e una dinamica serva-padrona, che ha il Messico per bisettrice, le classi sociali per punti di fuga e Cleo per prospettiva (non) privilegiata (…). Il volemose bene, però, è lasco, già Cuarón non è un campione d’empatia e qui un pervasivo e invasivo senso di colpa borghese non lo aiuta: c’è l’eredità di ‘Y tu mamá también’, c’è la lezione di ‘Children of Men’ – questo potremmo ribattezzarlo I figli degli altri – e l’abituale perizia tecnica, ma è un film più bello a guardarsi che bello da vedere.” (Federico Pontiggia, ‘Il Fatto Quotidiano’, 31 agosto 2018)

“Come si dice ‘Amarcord’ in messicano? ‘Roma’. Alfonso Cuarón ricorda la sua infanzia in un bianco e nero maiuscolo a Città del Messico (…).È un film sulla donna, l’ennesimo di questa Venezia di registi maschi che inquadrano, con potenza, più Lei che Lui. Nella pellicola Cleo è la fiera protagonista mixteca del popolo (la prima apparizione cinematografica di Yalitza Aparicio è sensazionale) mentre Sofia sembra una borghese piccola piccola in cerca di riscatto. Fellini è ovunque e non tanto per ‘Amarcord’ quanto piuttosto per ‘La strada’ (forzuti che si esibiscono in tv e davanti a giovani proletari trasformando il circo in arti marziali di massa), ‘Le notti di Cabina’ (lo spaesamento di una donna davanti all’amante crudele) e ‘Otto e mezzo’ (un tunnel intasato di macchine ferme). Il regista messicano (…) dirige, fotografa e monta con il chiaro intento di purificarsi nella memoria di un quartiere (Roma) di Città del Messico pieno di vita anche quando per strada ci si spara senza pietà (Massacro di Tlatelolco). Lunghi piani sequenza ipnotici e morbide carrellate infinite (una in mare contro le onde da brividi). Dura due ore e un quarto ma potevamo vederne altre quattro. (…) Forse non è il suo film più bello (l’interclassismo domestica-padrona a volte è fin troppo idealizzato) ma quanto ci mancava il suo sguardo così vorace di vita. Anche quando è la sua.” (Francesco Alò, ‘Il Messaggero’, 31 agosto 2018)